Archivio mensile:settembre 2023

Biennale Cinema 2023 | Titoli di coda

Come al solito il Mostro ha perso la visione del film vincitore del Leone d’oro: Poor Things di Yorgos Lanthimos (Regno Unito). Le cose viste in passato di Lanthimos non lo hanno convinto molto, vedremo.

Quest’anno, libero da impegni di lavoro, ha visto una quantità enorme di titoli, naturalmente inferiore a quella dell’amica Elisabetta, e non li ha schedati tutti.
La giuria ha lavorato bene. I riconoscimenti ai film di Garrone (Leone d’Argento, Premio per la Miglior Regia); Hamaguchi (Leone d’Argento, Granpremio della Giuria); Holland (Premio Speciale della Giuria) e Reizs (Premio Orizzonti per il Miglior Film) coincidono con le sue mostruose valutazioni.

Lascia interdetto il premio alla sceneggiatura di El Conde, buona più per una graphic novel che per un film. Ritiene che il film Zielona granica (Il confine verde) di Agnieszka Holland avrebbe meritato un premio più importante. Un riconoscimento meritorio è mancato a Tatami. Mi astengo dal giudizio alle Coppe Volpi: non ho assistito alle proiezioni.
Un’annotazione sulle produzioni italiane. La falange dei sei film in concorso prodotti nel nostro Paese (con l’eccezione di Io capitano di Garrone) ha dimostrato una qualità talmente bassa da essere imbarazzante. Un cinema intossicato da stili di sceneggiatura e regia modellati dalla televisione, dalla televisione più deteriore. L’impronta Netflix si avverte sui lungometraggi che la piattaforma produce ma i risultati hanno
ben più carattere e qualità cinematografica di quelli timbrati RAI. E adesso, dopo le purghe in RAI, il governo si sta accingendo a normalizzare il Centro Sperimentale di Cinematografia…
Soddisfazioni al Mostro passatista son venute dai restauri. L’Andrej Rublev nella versione restaurata e ripristinata è stato il suo privato Leone d’oro. La scoperta del film Shadows of forgotten ancestors di Sergei Parajanov è stata molto emozionante. In grado di coniugare indagine antropologica e narrazione epica, l’opera ha una sintassi filmica molto originale alla quale sono senz’altro debitori alcuni film di Pasolini come Medea e Il fiore delle Mille e una notte.

Deludente, invece, il coevo film di Agnes Varda Les creatures. Il nouveau roman non ha fatto bene al cinema, ritiene il Mostro, già deluso dalla visione di L’année derniére a Marienbad di Alain Resnais alla Mostra di qualche anno fa. La mescolanza fra reale e immaginario nel lavoro di uno scrittore di fantascienza slitta progressivamente in un episodio di Ai confini della realtà e impone ai due protagonisti, Michel Piccoli e Catherine Deneuve, performance attoriali a dir poco imbarazzanti.
È tutto. Il Mostro saluta e abbraccia i suoi lettori, sperando di ritrovarci in salute e buon umore l’anno prossimo.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2023 | 8° e 9° giorno

Io comandante di Matteo Garrone

È quindi possibile un film italiano ben scritto e girato, dal taglio epico, cioè narrativo e libero dalla marmellata di sentimenti che ha afflitto le produzioni nostrane in questa edizione della Mostra. Dicevamo del taglio epico. Garrone traccia prima un’Anabasi e poi un’Odissea di due adolescenti senegalesi che, come tutti i loro coetanei, hanno bisogno di giocare in proprio il loro destino, di traversare confini, sfidare regole, vedere il mondo. ‘Epica’ non significa trascurare la dimensione del mito, dei sentimenti, dei sogni e dei desideri. Significa rispetto per la narrazione, cioè il tramite della condivisione delle esperienze che ci accompagna da sempre e che l’ideologia individualistica dell’Occidente cerca di diluire e soffocare dal Romanticismo in poi. I protagonisti affrontano le prove iniziatiche tipiche della narrativa epica: incontrano il marabutto, lo sciamano della tradizione senegalese che fornisce i richiesti vaticini, vedono il volto della morte nella traversata del Sahara, resistono alle diverse incarnazioni del Male, sfuggono ai ricordi della casa natale e al desiderio di arrendersi, fino a giungere in mezzo al Mediterraneo alla scoperta della responsabilità individuale e della condizione di adulto. Pellicola di grande rilievo, tecnicamente perfetta, libera dalla peste televisiva delle altre produzioni italiane.

Origin, di Ava DuVernay

Interessante esperimento: trarre un film da un saggio di antropologia. L’espediente è narrare il making of del saggio attraversando gli eventi tragici, i lutti, i viaggi di documentazione che la scrittrice, già primo premio Pulitzer afroamericana, affronta. Il saggio punta a decostruire l’idea che il razzismo sia il fondamento delle pratiche di esclusione e sottomissione di un gruppo sociale su altri. Analizzando i modelli culturali che hanno guidato il sistema delle caste in India e la teoria del diritto del Terzo Reich – modellata in parte sulle norme di segregazione degli Stati del Sud negli Usa – l’autrice osserva che caste e leggi razziali furono create contro persone somaticamente indistinguibili da dominatori e aguzzini. Il razzismo è solo un caso particolare dell’ideale normativo che reggerebbe la sottomissione di una popolazione che è la casta. Gli elementi fondanti il processo di emarginazione e sottomissione sono l’obbligo di endogamia, cioè la possibilità di sposarsi solo con appartenenti al proprio gruppo/casta e l’attribuzione ex lege a ragioni storiche, biologiche, morali la superiorità di una casta sull’altra. Ovvero l’individuo è segregato nella propria casta in base a caratteristiche che non può modificare, fra queste il colore della pelle. Il Mostro ha trovato godibile una pellicola che sa sfruttare con intelligenza lo stile narrativo di Hollywood alternato a parti didattiche che rimandano a Brecht e, per il cinema, a Rossellini. Parte del pubblico, invero, ha trovato il film poco spettacolare ed è uscito sbuffando.

Holly di Fien Troch

Più volte il sorgere delle potenze istintuali nell’adolescenza è stato nel cinema rappresentato come rivelazione di una dimensione soprannaturale o mistica. Al Mostro vengono in mente Christine, la macchina infernale di Carpenter e Carrie – lo sguardo di Satana di De Palma. Di tutt’altro tono questa pellicola olandese che descrive con delicatezza lo smarrimento di una ragazza che scopre assieme la facoltà di fare segreti miracoli e il bisogno di essere carina, un po’ vanesia e dotata di un minimo di argent de poche. Il film è anche lo strumento con il quale il regista mostra aspetti di solito trascurati della realtà sociale olandese: famiglie a basso reddito, centri di assistenza per immigrati e marginali, scuole di periferia che possono andare anche a fuoco. Bassa spettacolarità in un’opera che ha scelto una linea narrativa molto rischiosa, fra il soprannaturale e il realismo. Scarso entusiasmo del pubblico.

Lubo di Giorgio Diritti

La sottomissione e l’esclusione, lo stigma e il pregiudizio di inferiorità accompagnano da millenni le popolazioni nomadi dell’Europa. La migrazione cominciò oltre mille anni dall’India quando, con l’introduzione del sistema delle caste, una numerosa popolazione rifiutò di essere collocata al gradino più basso, assieme agli intoccabili. Assunsero lingue e religioni diverse (cattolica, ortodossa, mussulmana), diverse denominazioni (rom, sinti, gitani, camminanti) e ancora oggi scontano un destino di marginalità. La cinematografia deve molto ad alcuni personaggi di origine nomade: Charlie Chaplin, Cary Grant, Rita Hayworth, Elvis Presley e alcuni altri. Gli stati hanno avuto molti problemi a collocarli nei loro ordinamenti, persino il nazismo, dopo averli internati, fu in imbarazzo nell’applicare loro la soluzione finale. Per la loro origine, erano gli unici a potersi fregiare del titolo di veri ariani. Lo sterminio, comunque, arrivò. In Svizzera i nomadi si chiamano Jenish e la democratica confederazione applicò loro quella teoria eugenetica che nella prima metà del XX secolo affascinò in tutto il mondo politici, scienziati e legislatori. Senza giungere agli estremi del nazismo, tentativi per impedire che gruppi sociali, etnie o individui marginali si riproducessero furono messi in atto contro gli aborigeni australiani, le popolazioni indigene del Canada, le ragazze madri irlandesi, i pazienti psichiatrici svedesi. Agli Jenish fu applicata fin dall’inizio del secolo una politica sistematica di sottrazione dei figli alle famiglie per avviarli all’adozione o all’internamento in brefotrofi e, poi, in manicomi. Il film di Diritti affronta l’argomento con uno “stile” che pretende raffinatezza ma è solo lento e privo di ritmo narrativo. La trama oscilla fra Il conte di Montecristo e i romanzi della Highsmith che hanno come protagonista Tom Ripley. Abbondano le lacrime. Sarebbe un’ottima fiction in tre puntate sui canali RAI.

Vermines (Infestazione ) di Sebastien Vaničeck

Una storia horror che rispetta tutte le forme canoniche del genere ma è girata in maniera fresca ed originale, tale da consentire di spostare lo sguardo dalle disavventure dei protagonisti all’ ambientazione: un condominio dall’architettura delirante abitato da una miscela variegata di nazionalità, etnie e tipi umani, attraversato da profondi legami di amicizia e anche da odii feroci. Le forze dell’ordine si dimostrano idiote come in La notte dei morti viventi. Ed è al film di Romero che va il pensiero, alla sua capacità di essere al tempo stesso di genere e innovativo, in grado di gettare sulla realtà sociale delle banlieue uno sguardo più efficace di altri film francesi programmaticamente impegnati. Nel finale, l’orrenda architettura viene fatta saltare in aria, come è stato fatto con le famigerate Vele di Secondigliano a Napoli.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2023 | 8° giorno

Green border di Agnieszka Holland

Come nel Rublev di Tarkovskij. Quando il pregiudizio di superiorità, la diffidenza, la fobia per il diverso prendono il sopravvento, allora tutto è possibile. Si può minacciare, umiliare, picchiare, irridere la sofferenza. Si può. Ogni pietà o forma di rispetto è abbandonata. Bambini, donne in gravidanza, anziani, persino le salme divengono oggetti da scagliare da una parte all’altra di una insignificante linea di confine. Non siamo, infatti, nell’immenso territorio della Russia del ‘400 ma in una sottile striscia che separa Polonia e Bielorussia verso la fine dell’epidemia di Covid. Da una parte all’altra del confine di due stati della civilissima Europa si perseguitano, aggrediscono, derubano migranti in fuga dall’ISIS, dai talebani, dalla fame. Famiglie lasciate all’addiaccio alla mercé dell’inverno in un bosco dove un bambino può annegare nel fango a pochi metri da una casa dove si sta tenendo una sessione di psicoterapia on line. Chi si chiede come siano state possibili la Shoah, le carestie pianificate dallo stato sovietico e dal governo britannico in Ucraina e in India, dove siano stati trovati i volenterosi carnefici ed esecutori di ordini, guardi i personaggi e guardi sé stesso nello specchio che questo film gli regge. Persone ordinarie, con un lavoro da mantenere, la moglie incinta, la casa da ristrutturare, smarrite ma disponibili ad ogni crudeltà. Nel corso della narrazione qualcuno si converte dall’indifferenza e dalla logica di sopraffazione all’istinto altruistico, ma la speranza può venire solo da coloro che per età o per vitale spirito di ribellione riescono a vedere oltre la linea di confine, oltre la linea verde che, nel terreno e nelle mappe sullo smartphone, acceca le menti. Lavoro magistrale per regia, trama e dialoghi, lavoro degli attori, fotografia. Nessuna sbavatura sentimentale o compiaciuta messa in scena della violenza. La crudeltà, che ognuno ben conosce, è rappresentata senza ricorrere ad alcun trucco retorico.

Hit man di Richard Linklater

Finalmente, fuori concorso, una dark comedy come si deve. Dopo le lacrime versate con il film della Holland, la strana consulenza professionale per la polizia di un bravo docente di psicologia e la tela di ragno di una angelica dark lady. Si ride per la costruzione convenzionale ma intelligente del plot, per i dialoghi perfetti, per la pulizia della ripresa. Alla fine di un pezzo di bravura della coppia, dove fingono per la polizia in ascolto un finto litigio, ho sentito il primo applauso a scena aperta di questa mostra.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2023 | Giorni 6° e 7°

Andrej Rublev di Andrej Tarkovsky

Perché si ammette al concorso principale un lavoro scombiccherato, prolisso e pretenzioso come La bête di Bertrand Bonello relegando nelle sezioni collaterali opere di ben altro valore? È il mistero e il dramma di questa edizione della Mostra. Consoliamoci con la visione di un immenso capolavoro, in versione restaurata e ripristinata dai tagli della censura sovietica: Andrej Rublev di Andrej Tarkovsky (1966, versione restaurata, in prima mondiale).

Uno dei rari film-mondo della storia della cinematografia, come Solaris, dello stesso autore, o 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Pellicole nelle quali le vicende dei personaggi si intrecciano in maniera perfetta con la rappresentazione storica o di fantasia dell’universo narrativo prescelto. Come nel più grande dei romanzi storici – Guerra e pace di Tolstoj – è tale universo il vero protagonista della narrazione. La storia del monaco Rublev, il Giotto della pittura sacra russa del 1400, si svolge in un territorio devastato dal conflitto che oppone i signori della guerra russi, alcuni dei quali godono dell’alleanza dei dominatori mongoli. Mosca è ancora vassalla dell’impero mongolo, eletta a kahnato, e l’immenso territorio è attraversato da inaudite violenze fratricide mentre l’ortodossia cristiana massacra le ultime popolazioni pagane e perseguita giullari e saltimbanchi. Ogni possibile violenza e ogni abuso sono consentiti. Su tale sfondo come può ancora il monaco pittore esercitare la sua arte, come ci si può dedicare alla ricerca della bellezza? Avvolto in questo dilemma Rublev per molti anni si rifiuterà di dipingere e di parlare. L’incontro con un improvvisato mastro campanaro, quasi adolescente, e con la sua determinazione e passione per il lavoro, con la dimensione artigianale del creare, gli consentirà di riscoprire il valore trascendentale della creazione artistica, con la scoperta della bellezza del Creato simboleggiata nella scena finale da cavalli sotto la pioggia in riva al fiume. I valori tecnici e formali della pellicola sono stupefacenti, inquadrature vertiginose riescono a contenere i primi piani dei personaggi assieme a campi lunghi di paesaggio o di scene di massa, la fotografia adopera un meraviglioso bianco e nero con tenuissime velature di colore, colore che nel finale sorgerà nell’immagine dei cavalli e delle vere icone di Rublev. Un’opera fluviale, tre ore e mezzo di proiezione, ne valeva la pena.

Evil does not exist di Ryusuke Hamaguchi

Niente di meglio, se ci si vuole riconciliare con la cinematografia, di un film giapponese. Pulizia e rigore delle riprese, senza forzature sonore o visive, ottima recitazione, passo lento ma ben ritmato. Una vicenda che, come in Making of, mostra il brutale intervento del capitale in cerca di profitti sulla vita e i destini delle persone, anche di quelle della sua squadra. Il ritmo della narrazione, che accoglie la cronaca di lunghe assemblee o lunghi dialoghi fra i personaggi, ricorda quello dei film di Ozu. Certo, non abbiamo la ripresa con la cinepresa fissa posta a un metro da terra, anzi la camera si muove parecchio e denuncia la scelta della tecnologia elettronica, ma nel complesso l’intonazione minimalista della cultura giapponese c’è tutta. Si coglie perfettamente l’ideale della difesa dell’equilibrio fra tradizione e modernità e la difficoltà di perseguirlo. Diversi agenti di disequilibrio, il progetto di realizzazione di un idiota struttura di glam camping (glamping) in un’area montana, cacciatori di cervi e una bambina in cerca di indipendenza, muovono il dramma verso un finale sospeso.

Moving di Shinji Somai. (1993, versione restaurata)

Altro film giapponese. Anche in questo film la tematica è la ricerca dell’equilibrio. Anche qui tutto ruota intorno ad una ragazzina. È in corso una crisi coniugale e la protagonista cerca di tornare all’equilibrio che gli garantiva la sua famiglia. Quasi un calco di I Quattrocento colpi di Truffaut, girato con tocco più lieve, alla ricerca dell’happy end. Anche questo film termina con un primo piano della protagonista in fermo immagine. Fu, infatti, presentato a Cannes.

Enea di Pietro Castellitto

In concorso, un altro fallimentare film italiano, il peggiore visto finora. La grande bellezza ridotto a fiction per Canale 5. Castellitto coniuga la verbosità inverosimile di Comandante a riprese prive di qualunque coerenza stilistica. Attorno ad un circolo per romani straricchi si dipanano le storie di Enea che cerca di farsi strada nel commercio di cocaina, del padre psicoterapeuta frequentatore di un bordello extra lusso (Sergio Castellitto, psicoterapeuta più credibile in In treatment quando lo dirigeva Saverio Costanzo), dell’amico gay in cura dal padre, del fratello disfunzionale e tanti altri luoghi comuni narrativi che è meglio tralasciare. Feste orgiastiche, voli sulla Capitale (“Roma dall’alto sembra un campo di concentramento”), l’amico che canta e ricanta la stessa canzone di Renato Zero, il grossista di coca che filosofeggia… Ma come si può? Il Mostro confessa di essere fuggito a tre quarti della proiezione.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2023 | 5° giorno

Adagio di Stefano Sollima

L’anno scorso a Roma mancava l’acqua (Siccità di Virzì). Nella Roma portata in scena da Sollima più volte al giorno manca la corrente elettrica. Un gigantesco incendio boschivo assedia la capitale e blocca la circolazione dei treni. In questo scenario apocalittico si snoda la vicenda che coinvolge un “pischello” reclutato per una losca manovra di ricatto politico, carabinieri corrotti e reduci ottantenni della banda della Magliana. Sollima gira con la abituale perizia e convoca il gotha degli attori italiani (Servillo, Mastrandrea, Favino), ognuno chiamato a brevi pezzi di bravura. Regista e interpreti appaiono però “tutta tecnica e distintivo”, il risultato è deludente, inferiore a quello di una serie come ZeroZeroZero, ideata da Sollima e presentata nel 2019 alla Mostra. Semplicemente la sceneggiatura e i dialoghi non reggono, nel tentativo di mantenere un ritmo forsennato compresso nelle due ore di un film la vicenda si sviluppa per stereotipi, i personaggi sono monodimensionali senza per questo possedere la caratterizzazione epica che riuscì a Servillo nel gangster movie 5 è il numero perfetto di Igort, anche esso presentato alla Mostra del 2019.

Maestro di Bradley Cooper

Tutta la potenza di fuoco delle produzioni americane si dispiega in questo biopic sulla carriera e le vicende personali di Leonard Bernstein. Per intenderci, i produttori sono -oltre a Cooper che cura la regia e interpreta il protagonista- Martin Scorsese e Steven Spielberg. Dialoghi, recitazione, riprese, ritmo e fotografia sono perfetti e la colonna sonora sciorina una serie di meravigliose musiche tratte dalle opere e dalle interpretazioni di Bernstein. Tuttavia tale apparato è al servizio di una storia di scarso interesse, incentrata sull’omosessualità del protagonista e i suoi vizi privati. Manca la Storia sullo sfondo della quale Bernstein vive la sua lunga vita. Non si fa cenno alle idee politiche radicali del compositore, che lo portarono all’attenzione dell’FBI, né alla sua partecipazione alla raccolta fondi per le Pantere Nere. Non c’è l’eco neanche della rivolta di Stonewall, che segnò la nascita del movimento gay. Tutto si riduce al dramma di un omosessuale di genio che si è dovuto sposare e avere figli per poter mantenere la sua rispettabilità sociale. Tanto sforzo per un guscio vuoto.

Tatami di Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi

Il primo film girato in collaborazione, da un regista israeliano e da uno iraniano ovviamente in esilio. Ottima pellicola di ambientazione sportiva, durante una competizione mondiale di Judo, con riprese realistiche e dure dei combattimenti, che vira poi nella narrazione dei tentativi crudeli di soffocamento da parte di un regime totalitario delle aspirazioni personali di una grande atleta e della sua allenatrice. Con la minaccia, il ricatto e la violenza l’Iran esercita le sue pressioni anche fuori dai suoi confini. C’è il rischio che la protagonista debba confrontarsi con un’atleta israeliana e questo è considerato inammissibile. Opera di grande spessore, confinata nella sezione Orizzonti, che ben avrebbe figurato nel concorso ufficiale.

Making of di Cédric Kahn

Fuori concorso. Cinema nel cinema, cinema politico sviluppato nelle forme della commedia come solo in Francia si riesce a fare. La vicenda narrata si intreccia con quella della realizzazione del film, gli operai subiscono la pressione della ditta come la troupe e il cast subiscono quelle dei finanziatori che vogliono imporre un consolatorio happy end. Attori narcisisti, drammi coniugali e amori difficili come in Effetto notte di Truffaut, ma con in più la rappresentazione degli sforzi che la logica del profitto esercita sulla libertà di espressione.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema | Giorno 4

Finalmente l’alba di Saverio Costanzo

Saverio Costanzo riduce a fotoromanzo La dolce vita utilizzando riprese virtuosistiche, una sceneggiatura lineare che non lascia spazio a dubbi ed interpretazioni (l’esatto contrario del capolavoro di Fellini) e dialoghi di una verbosità tale da eguagliare quelli di Comandante. Materiale per una miniserie Rai. Costanzo sa girare ma, evidentemente, non dispone di epigoni di Ennio Flaiano o Tullio Pinelli. Non starò ad enumerare le molte inverosimiglianze del plot, basti pensare che tutto è ambientato in una orgiastica festa di ricchi e potenti, organizzata nei giorni dalla scoperta del corpo di Wilma Montesi e a pochi metri dalla spiaggia del ritrovamento. Si direbbe a Roma: “A’ mpuniti!”. Caricaturali e incredibili anche le figure dei divi hollywoodiani che trascinano nel gorgo della perdizione l’innocente protagonista, brava a piangere e a dire: “Io sò de Roma”.

The Working Girls (1974) di Stephanie Rodman

Le soddisfazioni vengono ancora dalle pellicole restaurate. Negli anni in cui monta il movimento femminista donne squattrinate ma serenamente intraprendenti si mettono nei guai ma riescono a uscirne. Il plot vìola tutte le consuetudini della narrazione cinematografica, improvvise svolte narrative creano gag, suspense, sorpresa. A ben vedere si tratta di un’esercitazione sulla sintassi del cinema porno, dove è abituale che una situazione ordinaria, ad esempio la visita dell’idraulico, si trasformi di colpo in un coito forsennato. Nel film sono illustrati gli antecedenti e le conseguenze degli incontri sentimentali, il coito viene saltato. In quell’epoca, comunque, una analoga frammentazione delle linee narrative si osserva nella nouvelle vogue francese, persino in film russi e dell’Europa dell’Est o in autori come Altman. Una interessante scoperta che proviene dagli archivi del MOMA di New York.

Magyarázat mindenre (Una spiegazione per tutto) di Gabor Reisz

Questo film ungherese in concorso ha senz’altro soddisfatto i gusti perversi del Mostro, molti però lo hanno trovato troppo lungo. Esempio di sceneggiatura curata e ritmata, di tecnica di ripresa pulita e anti retorica, con dialoghi credibili che alimentano un sentimento di verosimiglianza. Ricorda un po’ Ovosodo di Virzì ma liberato dalle sfumature di commedia che affliggono i film italiani. Innamoramenti, gelosie ed equivoci interferiscono con il rituale di passaggio dell’esame di maturità. Nella sempre più divisa Ungheria di questi giorni, però, l’esame fallimentare di un ragazzo diviene un caso nazionale, un incendio che dal passaparola si allarga ai media determinando il destino di carriere e i progetti di vita delle persone via via coinvolte. Lo smarrimento del protagonista diviene l’occasione per accuse di antipatriottismo o per la resistenza alle politiche di progressiva limitazione della libertà di insegnamento. Nonostante ciò, la narrazione si mantiene lieve, i colpi di scena e le discussioni avvengono come nella vita, senza enfasi di recitazione o sottolineature di colonna sonora. Finalmente una pellicola degna della selezione ufficiale che, probabilmente non troverà una distribuzione in Italia e, forse, neanche in Ungheria.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2023 | Giorno 3

In diretta dalla 80^ Mostra del Cinema di Venezia ecco le nuove recensioni del nostro Mostro Marino alias S.M. Buona lettura!

Dogman di Luc Besson

Nel momento in cui gli Stati Uniti si affermano come maggiore potenza mondiale, poco prima di raggiungere con Fermi e Oppenheimer il controllo dell’energia e della bomba atomica, nei comics si afferma con Superman la figura del supereroe. Oggi è chiaro che gli eroi dotati di super poteri rappresentano un vero e proprio Pantheon mitologico, una categoria dell’immaginario radicata nel pensiero simbolico d’oltreoceano. Miti e leggende che, in maniera non dissimile dalle vicende dagli dei dell’Iliade o del Mahabharata, sono ben presenti nell’orizzonte simbolico dell’americano medio. Besson crea in questo film un nuovo eroe, un po’ Batman, un po’ Joker. La linea narrativa è quella abituale, infanzia segnata da sventure e traumi a cui segue la scoperta o la creazione volontaria di eccezionali poteri o abilità, da affermare al servizio del bene o del male. Il prototipo cinematografico è il Batman di Tim Burton (1989), inesorabile, spietato e matto. Il Dogman di Besson ha con i cani la relazione di Batman con i pipistrelli o, se si vuole, (in considerazione dell’origine francese del regista e della produzione), ha la relazione di Fantomas con i suoi *apache*. Il film, nella sua inverosimiglianza, è girato con perizia e furbizia, attraente per gli adolescenti e per gli adulti, comico e drammatico, violento e attento alle tematiche queer. Un’altra apparizione di un folle supereroe nella realtà odierna come fu il “Birdman” di Inarritu (2014) poi l’uomo-pesce de La forma dell’acqua di Guillelmo del Toro (2017) e il Joker di Phillips (2019), tutti presentati in anteprima alla Mostra.

La provinciale (1953) di Mario Soldati

Grandi soddisfazioni dalla rassegna dei classici restaurati. La provinciale di Mario Soldati è l’adattamento di un racconto di Moravia di taglio cecoviano, meravigliosamente sceneggiato dal regista con Giorgio Bassani ed altri ed è una pellicola di grande potenza narrativa e perizia tecnica. Soldati anticipa di dieci anni, con maggiore ritmo scenico e narrativo, gran parte del cinema italiano degli anni ‘60, il cinema di Antonioni, Bertolucci, Pasolini, Bellocchio. Splendido il piano sequenza iniziale, paragonabile a quello che apre L’infernale Quinlan di Welles. Purtroppo la visione della pellicola è preceduta da una noiosa e inutile intervista di Orson Welles a Gina Lollobrigida che viene inflitta all’incolpevole spettatore.

One from the heart (Un sogno lungo un giorno, 1982) di Francis Ford Coppola

Altro capolavoro restaurato, questo film è la realizzazione di un sogno tecnico estremo. Coppola pretese di ricostruire in studio Las Vegas per avere il controllo totale della messa in scena di un film in gran parte musicale. La spesa ingentissima e lo scarso successo nelle sale portò alla bancarotta della sua casa di produzione e alla vendita degli Zoetrope Studios che aveva creato. Visto oggi il film risplende di luce propria, il cinema musicale risorge affermando la necessità di svelare il gioco fra realtà e fantasia che fonda la cinematografia, quel gioco che nessuno è poi riuscito a rappresentare con pari potenza (lo si confronti con La La Land). Troppo avanti per i suoi tempi lo è forse ancora oggi.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2023 | Giorno 2

Comandante di Edoardo De Angelis.

Il Mostro non si infilerà nella discussione fra chi sostiene si tratti di un film nazional-sovranista e chi di una metaforica esaltazione di Open Arms e delle altre Ong che operano nel Mediterraneo ai giorni nostri. Torniamo ai valori formali della pellicola. C’è un evidente sproporzione fra la scrittura che permea la sceneggiatura e la resa delle immagini. Lo script ha un taglio teatrale, drammatico, a tratti melodrammatico. Solo un’opera musicale, infatti, potrebbe supportare frasi, gesti e vicende così estreme e irrealistiche senza scadere nella retorica e nel risibile. Ci si poteva ispirare al Peter Grimes di Britten, all’Olandese volante di Wagner, ricordarsi che L’oro del Reno inizia sott’acqua…

A tale scrittura a tinte forti si associa una resa delle immagini che oscilla fra primi piani televisivi, che annullano la possibilità di dare conto della dimensione claustrofobica del sottomarino, e scene ispirate ai film della Cavani degli anni ‘80 (e per il Mostro questo non è un complimento).

La truppa canta “Un ora sola ti vorrei” andando verso la pugna, le infermiere piangono i loro amanti, il Comandante ricorda la moglie nuda con il suo cappello in testa…

E mi voglio fermare qui.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2023 | Giorno 1

Giorno primo, 30 settembre 2023 | Si inizia con due pellicole difficili, prevalente il bianco e nero, scelte stilistiche dure e pure, nessuna concessione allo spettacolo e, quindi, collocate nella riserva indiana delle “Giornate degli Autori”.

Gli oceani sono i veri continenti di Tommaso Santambrogio

All’inizio sembra di essere finiti in un film di Lav Diaz (dopo scoprirò che il regista ha collaborato con l’autore filippino). Bianco e nero molto curato, ritmo lentissimo, personaggi impigliati in relazioni e vincoli inesorabili. Manca, però, quella lenta ma senz’altro presente dinamica delle vicende che, nei film di Diaz, veicola la dimensione tragica. Il tema del film è infatti il tempo sospeso, il tempo di chi, nella Cuba più povera, cerca di andare via, attende un visto per l’Italia, la perdita dell’amore o ha perso in guerra l’amore di una vita. Violano la sospensione temporale i ragazzini che crescono, sognano, giocano a baseball. Quotidianità, speranze e timori dei personaggi si alternano nella messa in scena, gli eventi sono mostrati con semplicità e rigore, le emozioni sono evocate senza una colonna sonora musicale sovrapposta ai suoni d’ambiente. Il montaggio del sonoro in presa diretta è davvero notevole. Di Santambrogio avevo visto a Venezia nel 2021 un cortometraggio (L’ultimo spegne la luce) molto scolastico e piuttosto brutto. Il film di oggi è un sostanziale passo avanti verso l’acquisizione di uno stile personale.

Il sole sorgerà di Ayat Najafi

Ancora nelle “Giornate degli Autori”, un film girato clandestinamente in Iran. Un film dove, per proteggere gli attori ma soprattutto per indicare il tema centrale dell’opera, ossia la liberazione dei corpi, non viene mai inquadrato un volto. Piedi, nuche, mani danzano, recitano e si tendono mentre serrati dialoghi, litigi, discussioni su tematiche estetiche, politiche e personali, si susseguono all’interno di una claustrofobica sala prove. Una compagnia teatrale clandestina e una troupe cinematografica altrettanto occulta stanno lavorando alla messa in scena della Lisistrata di Aristofane. Fuori è scoppiata la rivolta successiva all’assassinio di Mahsa Amini e ci si interroga sull’eticità di continuare a mettere in scena una commedia, sia pure la prima commedia femminista dove le donne parlano della loro sessualità, mentre per le strade c’è la rivoluzione e centinaia di giovani sono catturati e uccisi. Una messa in scena così anticonvenzionale, dove il bianco e nero domina inframmezzato da filmati di repertorio e il teatro (con evidenti ascendenze dal Living Theatre) ha perso i volti, è in grado di suscitare forti emozioni, sussulti violenti e riesce a far sentire quali lacrime, gioie e sangue sgorgano dal grido Donna, vita, libertà. La scuola cinematografica iraniana si conferma essere un giacimento di originalità e competenze stilistiche in grado di dare frutti preziosi anche sotto il tallone di un insensato regime.

Sidonie in Japan di Elise Girard

Chiude la prima giornata uno strano film che fonde lo shock culturale di una scrittrice francese calata nella realtà giapponese (lo stesso di Lost in translation) con una storia di fantasmi. Il film è girato con un delicato tocco di commedia che include gag e apparizioni di uno spirito burlone. Il dolore che avvolge i personaggi viene dal passato (come in Hiroshima mon amour) ma è mostrato con nipponico pudore e gli spettri, come i ricordi, sono infine cortesemente accompagnati alla porta. Film appena manierato, ben scritto, nel quale è apprezzabile la performance di Isabelle Huppert, ora vedova dolente, ora sbadata parigina negli hotel di Osaka e Kyoto.

Il Mostro Marino alias S.M.

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