Archivio mensile:settembre 2022

Biennale Cinema 2022 | Finale di stagione

La Mostra si chiude, spettatori e autori lasciano il Lido e due importanti registi, Alain Tanner e Jean Luc Godard, lasciano questo mondo, in un caso volontariamente. Il livello delle pellicole che il Mostro è riuscito a vedere è stato di buona qualità in assenza, però, di realizzazioni memorabili.

Deludenti i film italiani, gli amici però dicono bene de “Il signore delle formiche” di Gianni Amelio, che mi riprometto di vedere in sala. Non andrò a vedere, invece, il film del premiato Guadagnino, che non sopporto.

Altre pellicole che hanno incontrato il favore del pubblico, da recuperare in sala o sulle piattaforme, sono “The Banshees of Inisherin” di Martin McDonagh, premiato per la sceneggiatura, e “The Whale” di Darren Aronofsky, nessun riconoscimento. Altri film che avrebbero dovuto essere premiati, secondo il Mostro, sono “Monica” di Andrea Pallaoro e l’iraniano “Beyond the Wall” di Vahid Jaliva, stilisticamente debitore della lezione di Godard.

La cinematografia persiana, che resiste strenuamente alle censure del regime teocratico, si conferma una delle più importanti fucine del cinema mondiale. Chissà se si riuscirà a vedere oltre il Lido il samizdat “Khers Nist” dell’autore semiclandestino Jafar Panahi, Premio Speciale della Giuria, che ho perso.

I giapponesi, nei classici restaurati e nel “Love Life” di Koji Fukada, si confermano maestri ineguagliabili di stile.

Lav Diaz, dalle Filippine, si conferma con “When the Waves Are Gone” un grande maestro di oggi, portatore di una cifra stilistica originalissima, anche se non raggiunge il risultato dello stupefacente “Genus Pan” visto al Lido due anni fa.

Le produzioni francesi ruotano tutte intorno la tematica inclusione/esclusione dei cittadini di origine araba e africana. “Saint Omer” di Alice Diop ha meritatamente vinto il Leone d’Argento e il Leoncino per l’opera prima, ma delizioso è stato anche “Les Miens” di Roschdy Zem e interessante “Pour la France” di Rachid Hami, meno “Athena” di Romain Gavras che, poverino, deve sentire il peso del confronto con il padre Costa-Gavras.

Le tematiche che hanno dominato la rassegna sono state quelle della violenza che scorre nelle pieghe delle società, dell’integrazione nelle società multietniche e della fluidità di genere, temi solo in parte rispecchiati nei film premiati.

È tutto. Un abbraccio del Mostro alla sparuta pattuglia dei suoi lettori.

Arrivederci.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2022 | Dieci settembre

“Chiara” di Susanna Nicchiarelli

Lido di Venezia, 10 settembre | Susanna Nicchiarelli aggiunge un altro capitolo alla galleria di donne determinate e di talento che si scontrano con l’ottusità delle norme e delle consuetudini sociali. Con “Chiara” illustra con precisione cronologica la vicenda della mistica umbra che, sull’esempio, la scia e il mandato di Francesco d’Assisi, tentò di creare il ramo femminile del movimento francescano, presente nel mondo e votato alla povertà. L’autorità papale determinerà un radicale ridimensionamento del progetto di Chiara. La resa cinematografica di questo biopic è purtroppo molto inferiore ai precedenti lavori su Nico dei Velvet Underground [“Nico, 1988”, del 2017, N.d.R.] e su Eleanor Marx [“Miss Marx” del 2020, N.d.R.] visti gli anni scorsi alla Mostra. La forma narrativa non realizza né la rappresentazione del mito né quella della condizione materiale della donna nella società medioevale. Prevale il santino. Chiara e le consorelle sono sempre sorridenti e con gli occhi inclini all’estasi, i digiuni, le penitenze e la pervicace ricerca della povertà non lasciano segni se non sui piedi delle poverelle di Gesù. Si respira l’aria di una comunità hippie sorta fra i boschi dell’Umbria, i miracoli vengono vissuti con nonchalance, senza stupore o sgomento. Invece i mistici di ogni epoca, da Santa Teresa a Padre Pio, hanno lasciato testimonianze drammatiche dell’esperienza del contatto con l’ineffabile. Ma Chiara, in questo film, appare esercitare con naturalezza e fin da subito un talento di navigata politica nel confronto con la Chiesa di Roma. L’aspetto meno convincente è poi quello del casting. Francesco bello e impossibile, le consorelle con volti di ragazze di buona famiglia direttamente importati dagli spot pubblicitari e dalle fiction della Rai. Siamo lontani dalle raffigurazioni di Giotto o da quelle del Vangelo di Pasolini, ma anche dai volti del “Francesco d’Assisi” del 1966 e di “Milarepa” della Cavani [del 1974, N.d.R.]. Un film che è stilisticamente fuori tono.

“Les Miens” di Roschid Zem

Poi due film francesi che ritornano sulla tematica del rapporto fra la Francia e i suoi cittadini di origine nordafricana. In ambedue si tratta di persone altamente inserite, economicamente e culturalmente, nella società d’Oltralpe. Lacan notava che i casi da lui trattati in analisi di africani di censo elevato non differivano dagli altri suoi pazienti per produzioni simboliche e dinamiche del transfert. È così nelle narrazioni di queste due pellicole, dove le crisi familiari, le angosce e le nevrosi rispettano in pieno le dinamiche dei comuni cittadini.

In “Les Miens” di Roschid Zem assistiamo alla crisi di una famiglia allargata di francesi di origine marocchina che comprende, fra gli altri, un quadro dirigente di una piccola azienda e un affermato e ricco giornalista sportivo del piccolo schermo. La malattia psichiatrica del primo, prodotta da un trauma cranico, determina una crisi profonda delle relazioni fra i membri del clan, che affrontano il dramma in ordine sparso e giungono a rinfacciarsi le scelte di vita, le incomprensioni e le invidie covate da tempo gli uni verso gli altri. Ma le relazioni familiari reggono, la solidarietà a fatica prevale e la lenta guarigione del dirigente d’azienda accompagna il restauro dei sentimenti d’affetto e mutuo sostegno verso un credibile happy end. Il senso della famiglia della cultura magrebina alla fine prevale sull’individualismo della cultura europea. Notevole, ben girato, recitato e scritto magistralmente.

“Saint Omer” di Alice Diop

“Saint Omer” di Alice Diop, vincitore del Leone d’Argento e del Leoncino per l’opera prima, descrive la nevrosi di una giovane e brillante docente universitaria e scrittrice francese di origine africana (le conseguenze e le virtù dello ius soli!) che assiste al processo per l’infanticidio perpetrato dalla madre, una studentessa universitaria di origine senegalese. I media e la Corte stentano a comprendere il gesto di una giovane africana che “parla un francese perfetto” e che non rispetta gli stereotipi etnici con i quali ci si approccia al caso. La protagonista giunge a riconoscere nella rea confessa gli stessi condizionamenti da sua madre che ha fatto ogni sforzo per condurla al successo attraverso gli studi. La follia dell’infanticida e la nevrosi della protagonista, l’ambizione sociale della madre della prima (che le ha proibito di parlare la sua lingua, il wolof) e la sofferenza psichica di sua madre, si corrispondono gettandola in un’angoscia che rimane senza risposta. Un film duro, oggettivo, di taglio illuminista, dalla sintassi più teatrale che cinematografica, che rappresenta una novità nella cinematografia europea ma che è stato poco apprezzato dal pubblico in sala.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2022 | Nove settembre

“Siccità” di Paolo Virzì

“Siccità”, di Paolo Virzì, fuori concorso. In uno scenario degno di un romanzo di Ballard, la sparizione dell’acqua dalla Capitale (come realmente è accaduto in passato a Palermo e in altri centri del Meridione) diviene uno stress test per illustrare drammi e miserie degli italiani. Come le pestilenze in Boccaccio, Manzoni, come nella Orano di Camus. Il colosso di Nerone viene scoperto nel greto asciutto del Tevere (e qui si fellineggia), le blatte sono dappertutto (e qui si sorrentineggia, ovvero si post-fellineggia) ma la sceneggiatura semplicemente non riesce a reggere l’intreccio delle storie di corna, povertà (un neo Umberto D con tanto di cane), attore sul viale del tramonto, omicidio, Dinasty a Valle Aurelia, agnizione, omicidio stradale, etc, etc…. Il modello, altissimo, della pellicola è lo splendido “America oggi” (“Short Cuts”, 1993), in cui Altman montò alcuni racconti di Raymond Carver trasposti nella Los Angeles prossima a vivere un catastrofico terremoto, The Big One. Una poesia di Carver viene citata per esteso nel film di Virzì, la morte tardiva per investimento stradale è presa di peso da uno dei più noti racconti dello scrittore americano. Ma la sceneggiatura non regge. Dialoghi con ritmi da commedia dove il sarcasmo oscura la tragedia, battute da fiction Rai, scenette buffe prive di valore narrativo. La pletora di sceneggiatori citata nei titoli di coda fa pensare a quelli della soap “Gli occhi del cuore” in “Boris”, la serie e il film. È un’opera fallita, buona al più per essere smontata in una fiction per Rai Play. Fa male vederla firmata da uno dei pochi registi italiani che hanno creato opere di spessore in questi anni. Unica consolazione per il Mostro l’apparizione, in apertura e chiusura del film, del direttore d’orchestra livornese Federico Maria Sardelli. Un genio leonardesco, massimo filologo vivaldiano, pittore raffinatissimo, romanziere autore de “L’affare Vivaldi” (Sellerio), orgoglioso autodidatta.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2022 | Otto settembre

“Shab, Dakheli, Divar (Oltre il Muro)” di Vahid Jalilvand

“Beyond the Wall”, dall’Iran, in concorso. Ancora una lezione di cinema da questo Paese. Inizia come una storia iper realista, un fallimentare tentato suicidio, un uomo chiuso in una casa, una ingravescente cecità. Sembra di scorrere le stampe di George Grosz degli anni di Weimar: reduci di guerra, invalidi miseri e soli, abitazioni spoglie, muri scrostati. Col procedere della narrazione, però, si verificano degli apparenti errori di montaggio, lo stesso dialogo viene proposto in scene differenti, alla luce del sole nei flashback e nella penombra della casa, la scena per pochi attimi appare ripresa da una telecamera di sorveglianza, crescono incongruenze nella trama che include una donna disperata che ha ripetute crisi epilettiche. Questi salti logici, temporali, narrativi, lungi da disturbare o disorientare lo spettatore, generano suspense e attenzione ed espandendosi divengono il cardine della narrazione. Oltre il muro della cecità e dell’oppressione poliziesca, nel frammentarsi della temporalità generata dall’epilessia, ricordo sogno e rêverie si fondono e generano un universo dove i nessi causali e temporali sono sovvertiti e rispecchiano una condizione celata della psiche. Un risultato così elegante e incisivo che Nolan, in “Inception” o “Interstellar”, se lo sogna. Sogno, come alcuni interpretano la narrazione di “C’era una volta in America”. E per un attimo, nel finale, il protagonista replica il sorriso in macchina di De Niro nella fumeria d’oppio.

“Anhell69” di Theo Montoya

Poi, finalmente un film di cui dire il peggio. Dalla Settimana della Critica, “Anhell69” di Theo Montoya. Preceduto da un corto di allievi del Centro Sperimentale, il cui scenario evoca potentemente uno dei primi successi di Laura Pausini, ecco un film sulla scena gay e trans di Medellín, Colombia. Un breve lavoro che non è fiction e non è documentario ma che gronda inautenticità lungo tutti i 79 minuti di durata. Non c’è sviluppo narrativo o articolazione della documentazione, non c’è argomentazione. Solo un ripetuto lamento in tono predicatorio da parte della voce fuori campo dell’autore, interessato solo a stupire, scandalizzare e rivendicare l’autoisolamento dei personaggi. Potrebbe essere un film sui punk degli anni ‘80, su una comunità mormone o sui galeotti della Siberia. Cambierebbe poco.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2022 | Sei settembre

“Love Life” di Kôji Fukada

La profonda interiorizzazione delle norme e delle consuetudini sociali dei giapponesi genera un’immagine molto più rassicurante delle consuetudini sociali del Sol Levante se confrontate con quelle nordamericane. In “Love Life” (che tradurrei come “Amore e Vita”) un quartiere di casermoni di periferia architettonicamente non dissimile dalla Secondigliano di “Gomorra” è invece un’isola di ordine, pulizia e rispetto reciproco come in una comunità rurale, mentre le istituzioni cittadine sono attente e rispettose delle esigenze degli homeless, alla assistenza dei quali lavora la protagonista. Sarà un lutto improvviso e tremendo a portare a galla i drammi che accompagnano il costante contenimento delle emozioni, il conflitto fra vincoli di sangue e relazioni liberamente instaurate, l’ostilità verso una donna sposata reduce da un divorzio. Il film segue passo dopo passo l’elaborazione del lutto, la riscoperta e l’accettazione del passato e della compassione, fino all’affermazione di un rinnovato legame coniugale. Tutto è descritto con una raffinata semplicità erede del cinema classico giapponese. La riscoperta della tenerezza passa anche dall’ingresso nella vicenda di una gattina.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2022 | Cinque settembre

“Quando non ci sono più onde” di Lav Diaz

Lav Diaz, l’autore filippino rivelatosi due anni fa alla Mostra con il meraviglioso “Genus Pan”, riprende il tema della violenza, calandolo però nella realtà odierna delle uccisioni extragiudiziali del regime di Duterte condotte nel perseguimento di un’aberrante guerra alla droga. La colpa, la necessità della vendetta, l’inefficacia della religione e della fede nell’arginare la distruttività, non sono illustrate con la profondità mitica e filosofica del film precedente. I tempi dilatati di “When the Waves Are Gone” (che tradurrei come “Dopo le Onde”) sono gli stessi del film del 2020, la ripresa in bianco e nero è ancora realizzata solo con luci d’ambiente, ma le immagini sono sgranate, come granulare e dolente è la realtà sociale odierna della nazione filippina. Quanto smarrita sia l’integrità e la coerenza della realtà sociale descritta emerge chiaramente dall’ascolto dei dialoghi. Per alcune espressioni quotidiane, si tratti di un rapporto di polizia o della richiesta di una camera d’albergo, la lingua filippina non possiede espressioni adeguate e si adopera l’inglese, così come i dialoghi sono infarciti di termini spagnoli. Nel linguaggio si sedimentano tutte le vicende storiche che hanno fatto di questa nazione oceanica una civiltà fallita. La parte finale del film, nella quale si affrontano i due protagonisti, assume le forme di una versione dai tempi dilatati di “Kill Bill”, con anche la forgiatura di un’arma micidiale. La conclusione è senza speranza alcuna, la colpa non può essere espiata se non con l’annientamento.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2022 | Quattro settembre

“Master Gardener” di Paul Schrader

Lido di Venezia, 4 settembre 2022 | Se il giardiniere Chance, Peter Sellers in “Oltre il giardino” (1979), si addentrava in un futuro misterioso e opaco, il giardiniere di “Master Gardener” di Paul Schrader, fuori concorso per il riconoscimento all’autore del Leone d’Oro alla carriera, deve confrontarsi con il ritorno del passato. Tipica trama da Nuova Hollywood, come “The Card Counter” dello stesso autore visto lo scorso anno. Ricorda i film di Eastwood (“Gran Torino”), anche qui la missione di salvare una giovane vita riporta il protagonista a confrontarsi con le colpe del passato e nel far ciò ripercorre tutte le fratture razziali, ideologiche, di censo e di potere che percorrono in maniera sempre più profonda la società statunitense. Opera godibile. Sigourney Weaver interpreta una anziana possidente impegnata a far scontare alla giovane nipote le ”inadeguatezze” della sorella morta, che la ha concepita con un marginale di colore. Il suo personaggio sembra anch’esso tornare dal passato, da film come “Viale del tramonto” [1950, N.d.R.] o “Improvvisamente l’estate scorsa” [1959, N.d.R.], incarnando quello di un’anziana nobildonna trascinata da rancori insopprimibili.

“Monica” di Andrea Pallaoro

“It’s so real”. Udito nella conversazione fra una coppia di americani all’uscita da “Monica”, di Andrea Pallaoro, in concorso. Quindi il film ha colpito nel segno, l’obiettivo è stato raggiunto. In un singolare formato delle immagini, 4×3, che fa sembrare le riprese un home video, con la camera che per gran parte del film inquadra la protagonista in ravvicinati primo piani, senza luci di scena, musiche tratte dall’ambiente (fra cui “Ragazzo triste” di Patty Pravo), la pellicola persegue un ideale di realismo che affronta il tema della fluidità di genere trattandolo con delicatezza e rispetto, nella quotidianità. In questa ricognizione emergono, come nel film di Schrader, le incrinature del sistema di valori americano, prima di tutto quella del giudizio di adeguatezza/inadeguatezza delle persone. Ancor di più si mostra il lato oscuro di una società fondata sulla responsabilità delle scelte individuali. Il costo della preminenza dell’individuo sulla appartenenza a una comunità è l’aspetto “real” colto dai due spettatori americani: la solitudine, il bar per single dove nella toilette sono esposte polaroid di inaudita oscenità, il sesso fra sconosciuti…. È il costo che “the land of the free, the home of the brave!” (gli ultimi versi dell’inno nazionale che chiude il film) impone ai suoi cittadini.

Una nota in margine. Vedere scorrere il testo di “The Star-Spangled Banner” [inno nazionale degli Stati uniti d’America, N.d.R.] nei sottotitoli della scena finale, dove si esaltano i missili e i razzi sparati nella battaglia, mi ha fatto comprendere come la versione dell’inno di Jimi Hendrix a Woodstock [nell’agosto 1969, N.d.R.], lungi dall’essere irrisoria, fosse assolutamente fedele al testo.

“Mes petites amoureuses” di Jean Eustache

La pellicola restaurata “Mes petites amoureuses” di Jean Eustache, autore poco noto e maledetto della Nouvelle vague, morto suicida, coglie con imbarazzante sincerità il dramma dell’ingresso nella pubertà di un tredicenne. La scoperta del proprio corpo e di quello della donna, della fascinazione per la potenza e il predominio, sono mostrate in tutta la loro essenza traumatica vissuta nell’indifferenza degli adulti. Una cruda versione de “I quattrocento colpi” di Truffaut che procede con un ritmo lento e inesorabile, che non risparmia alcun aspetto dello smarrimento, della vergogna e degli imbarazzi della fine dell’età dell’innocenza.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2022 | Tre settembre

Lido di Venezia, 3 settembre 2022 | Primo film in concorso al quale ha potuto accedere il Mostro, “Athena” di Romain Gavras, poi un altro film francese, “Pour la France” di Rachid Hami. Dal punto di vista formale, due opere assolutamente differenti che però orientano il loro sguardo verso la stessa tematica, il dramma della problematica, e spesso fallimentare, integrazione dei cittadini di origine nordafricana nella realtà francese. In particolare emerge il fallimento dell’istituzione militare nel fungere da ascensore sociale per cittadini di cultura araba pur assolutamente devoti alla Republique e ai suoi valori.

“Athena” di Romain Gavras

Il primo film ci immerge nella ininterrotta cronaca di una rivolta in una banlieue destinata a infiammare le periferie di tutta la nazione. Quattro fratelli di origine nord africana sono al centro della vicenda, un ufficiale dell’esercito, un giovane ribelle con un grande carisma di leader, il capo di una banda di trafficanti di cocaina, un folle un po’ autistico con la passione per gli esplosivi. Siamo dalle parti di Dostoevskij, insomma. La narrazione procede per lunghi, fantasmagorici piani sequenza che a tratti, soprattutto nelle scene iniziali, scivolano nell’estetica dei videoclip, la specialità del regista prima di approdare al lungometraggio. La rivolta assume sempre più i caratteri della violenza dilagante ed epidemica che nessun capro espiatorio riesce ad arginare, che divora indistintamente perpetratori e vittime. È la tematica di “Nuevo orden” di Michel Franco, visto due anni fa alla Mostra. Fortunatamente è meno compiaciuta la messa in scena della violenza e il ritmo serrato della narrazione non consente di staccarsi neanche per un attimo dalla visione. Purtroppo un sottofinale “spiego tutto” banalizza quello che la visione dell’evocazione dell’aggressività incontrollata ci ha insegnato.

“Pour la France” di Rachid Hami

“Pour la France” ci conduce invece nel dramma di una famiglia di origini algerine alla quale il nonnismo strappa il più brillante dei figli, entrato nella scuola dei cadetti con l’ambizione di diventare “il primo membro dello Stato Maggiore che fumerà il narghilè bevendo tè”. Il conflitto fra la famiglia e l’istituzione militare è tutto sui simboli: quale sarà il luogo della sepoltura, quale inno verrà suonato, chi comporrà il picchetto d’onore… Una tipica narrazione da cinema civile nella quale i dispositivi simbolici dello Stato si intrecciano con le vicende di un nucleo familiare e di coloro che lo compongono, i rapporti familiari frantumati dalla guerra civile d’Algeria, le aspirazioni all’integrazione, la difficile presenza dell’Islam in terra di Francia. Si descrive la sofferenza che accompagna l’appassire di un terreno simbolico comune, analogo a quello della salma che attende più di una settimana la sepoltura mentre le regole islamiche prescrivono l’interramento entro il giorno successivo alla morte.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2022 | Due settembre

Lido di Venezia, 2 settembre 2022 | L’assegnazione casuale alle pellicole e impegni di lavoro hanno limitato le visioni a un classico restaurato del cinema indiano, “I giocatori di scacchi” di Satyajit Ray. Un film che possiede lo sguardo di un Tolstoj, in grado di spaziare dal respiro della Storia ai drammi e le miserie delle vite private. Descrive la conquista da parte dell’Impero Britannico, anno 1856, dell’ultimo regno Moghul che pure si era sottomesso come vassallo alla Corona britannica e alla Compagnia delle Indie. Contraltare agli eventi storici la vicenda di due Bouvard e Pécuchet indiani che, invece che schedare voci d’enciclopedia, ignari degli eventi, passano le giornate a giocare a scacchi. Incontreranno la Storia sotto forma di un lunghissimo convoglio militare che, con truppe, carri, cammelli ed elefanti, sfilerà sotto i loro occhi nella bellissima scena finale. È la fine di un regno islamico in cui il monoteismo convive serenamente con la sfarzosa sensualità della tradizione induista, dove i privilegiati possono ingannare il tempo, ma non la Storia, fra danze, poesia o gioco degli scacchi. Ricorda i film storici per la tv di Rossellini, pochi movimenti di camera, lunghi dialoghi, cronache distaccate che non fanno uso di alcuno degli artifici che si adoperano per ammaliare e stupire il pubblico.

Il Mostro Marino alias S.M.

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Biennale Cinema 2022 | Primo settembre

Lido di Venezia, 1° settembre 2022 | Tre giorni fa ho sperimentato il modernissimo sistema di prenotazione degli accessi alle sale per gli accreditati alla Mostra del Cinema. Evidentemente ispirato ai meccanismi della serie “Squid Game”, il sistema si attiva alle 7 del mattino e pone in competizione i pass holder. Quindici minuti per fare le scelte, dopo la prenotazione si è cacciati dalla fila degli acquirenti e si viene invitati a rimettersi in coda per poter avere accesso dopo 20-40 minuti. Poi il sistema va in crash…

Insieme ad altre raffinatezze, quali le differenti regole di prenotazione on line per i due gruppi nei quali sono suddivise le sale e la mancata distribuzione del programma cartaceo, l’accesso alle proiezioni diviene un processo darwiniano che ti alloca o ti spietatamente ti esclude a random nei pochi minuti a disposizione. Uno stress test alle coronarie del vostro Mostro che si ripete all’alba ogni due giorni. Certo, come si gloria Alberto Barbera, le file si sono senz’altro ridotte e velocizzate ma scompare la dimensione sociale del cinema. Ridotti ad utenti di piattaforme, si va in sala da soli, non ci si può dare appuntamento all’ingresso, raccogliere indicazioni o consigli, vincolati nelle prenotazioni dai quindici minuti. Non si uccidono così anche i “cinemostri”?

“Living” di Oliver Hermanus

Visto “Living”, remake in ambientazione britannica del capolavoro “Vivere!” (1952) di Akira Kurosawa. Le vite quotidiane nei due ex imperi insulari del dopoguerra, Gran Bretagna e Sol Levante, si rispecchiano nelle due pellicole, l’ultima sceneggiata dallo scrittore britannico di origine giapponese Kazuo Ishiguro, Premio Nobel e autore del romanzo “Quel che resta del giorno” da cui è tratto il film di Ivory. Stessi inviolabili rituali sociali, rigide gerarchie governate da ordini di beccata analoghi a quelli dei pollai, barriere invalicabili alla manifestazione dei sentimenti e alla ricerca della felicità. Usuale splendida recitazione dei film inglesi di alta gamma e un’ambientazione perfetta che rimanda un po’ ai film di Harry Potter: un ufficio comunale più astruso e incomprensibile del Ministero della Magia e un treno regionale a vapore che va su e giù dalla campagna a Londra e, più che parte dello scenario, diviene esso stesso un personaggio.

“Una gallina nel vento” di Yasujiro Ozu

A seguire un autentico film giapponese restaurato, “Una gallina nel vento” (1948) di Yasujiro Ozu. Una storia da immediato dopoguerra, fra miserie morali e materiali, coeva dei capolavori di Rossellini e De Sica, con i quali condivide non pochi aspetti formali, soprattutto nella sceneggiatura. Non si rimpiangono i bambini e le giovani donne da maritare delle più note pellicole di Ozu, rimane la meravigliosa eleganza formale delle riprese. Al Mostro partenopeo ha ricordato “Napoli milionaria!” di Eduardo. Nel finale,poi, non sono fuori posto le parole finali di “Filomena Martorano”: “Comm’è bello chiagnere, Domè!”.

Il Mostro Marino alias S.M.

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